Automazione Oggi - June/July 2016

AO June-July 2016-3

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Tavola Rotonda

Quarta rivoluzione industriale: benefici per imprese o lavoratori?

a cura di G. Miragliotta e C. Marchisio

Un’occasione per riacquisire competitività, ma è necessaria una trasformazione attenta che comprenda a fondo il fenomeno per evitare ricadute sul livello occupazionale.

La nuova offerta di tecnologie innovative a servizio del mondo manifatturiero, Industrial Internet of Things, Industrial Analytics, Cloud Manufacturing, Advanced HMI, Additive Manufacturing e Advanced Automation cambia il modo di pensare la manifattura, che diventa ‘smart’. Questo permetterà di ridurre il time-to-market dei prodotti, aumentare l’efficienza degli impianti e nasceranno nuovi business. Questa opportunità ha una valenza strategica per l’Italia. Il nostro Paese è in primo luogo a vocazione industriale: l’Industria genera, tra valore diretto e servizi indotti, oltre il 50% del PIL e, non a caso, attorno all’industria e alla manifattura si polarizzano numerose eccellenze ‘certificate’ del nostro Paese, dalla ricerca tecnologica e accademica al design. Se da una parte la quarta rivoluzione industriale costituisce l’opportunità di recuperare la competitività persa nei confronti dei paesi di nuova industrializzazione, dall’altra avrà un impatto sul mondo del lavoro che richiede una particolare attenzione sia in termini macro (livelli occupazionali) sia in termini micro (natura del lavoro ‘umano’ nel futuro).

L’effetto di questa rivoluzione sul mondo del lavoro ha acquisito grande rilievo, anche mediatico, soprattutto perché negli ultimi mesi sono stati resi pubblici alcuni studi che hanno fatto molto scalpore, delineando diversi scenari sul saldo occupazionale che ne deriverà; oltre a destare la nostra attenzione, però, dobbiamo riconoscere che essi lasciano aperti degli interrogativi sul fenomeno che in primo luogo resta ancora difficile da interpretare. A gennaio al World Economic Forum (WEF) si è parlato ampiamente della ripercussione sul mercato del lavoro di questa trasformazione e sono stati tentati i primi bilanci. Il risultato di quell’analisi evidenzierebbe un saldo occupazionale negativo di 5 milioni di posti di lavoro nel quinquennio 2015-2020 per le prime 15 potenze manifatturiere mondiali (in particolare: 7 milioni di posti di lavoro persi a fronte di 2 milioni di nuovi posti creati). Se si considera tuttavia che la base campionaria su cui è realizzato questo studio è costituita da paesi del mondo che danno occupazione a circa 1,9 miliardi di persone, il saldo negativo di 5 milioni appare un risultato poco consistente. Una seconda difficoltà intrinseca di questi studi è legata alla specificità dei singoli contesti: ad esempio, The Boston Consulting Group ha analizzato recentemente la trasformazione in atto nelle mansioni dei lavoratori nel contesto tedesco, arrivando a prevedere un saldo occupazionale lievemente positivo. In quest’ultimo studio la previsione sembra più ottimistica, ma d’altro canto non è detto che un’analisi nel contesto specifico della Germania abbia validità generale. Dal punto di vista macroeconomico le tre rivoluzioni industriali precedenti hanno certamente segnato grandi punti di discontinuità, ma nel contempo hanno stabilito nuovi equilibri nell’occupazione e nella tutela sociale, nella creazione e ridistribuzione della ricchezza. Non sono stati esclusi segmenti della popolazione dal mondo del lavoro, anzi: ognuna di queste discontinuità ha in primo luogo cambiato il concetto di lavoro. In definitiva, le precedenti rivoluzioni hanno portato maggiore qualità della vita e del lavoro, un incremento del benessere e dell’aspettativa di vita sana, un incremento del livello di istruzione e anche di partecipazione sociale.

Guardando alla storia, dunque, il cambiamento che stiamo vivendo rimane da leggere in chiave positiva. Ovviamente nel breve termine ci potranno essere saldi occupazionali negativi (con le naturali tensioni che ne discenderanno): una gestione attenta del transitorio è il fattore chiave affinché questa trasformazione non si traduca in una perdita di occupazione che si protrarrà nel lungo termine. La preoccupazione delle istituzioni deve quindi vertere sulla gestione della prima fase della trasformazione, dove è indispensabile capire la dinamica delle professionalità e dei nuovi skill ricercati: occorre assistere il cambiamento, la formazione e in alcuni casi sarà indispensabile disegnare degli opportuni ammortizzatori sociali. È importante gestire attentamente il transitorio soprattutto perché questa rivoluzione si sta imponendo con una grande velocità su tutti i settori e richiede investimenti strategici orientati al medio-lungo termine che vengono talvolta snobbati dalle imprese: oggi si hanno spesso incentivi e strumenti di controllo eccessivamente orientati ai risultati di breve termine (valore di borsa, indicatori di bilancio per azionisti e creditori ecc.) mentre i meccanismi sociali di riconversione e ri-professionalizzazione della forza lavoro non hanno la stessa velocità ed efficacia. La difficile sfida che spetta a ogni Paese consiste nel progettare dei meccanismi di reinserimento professionale (attraverso la formazione) per non perdere occupazione; gli effetti di carenze su questo tema sono ormai ben visibili in Italia, dove è necessario ricreare e ridistribuire le competenze che servono. La buona notizia è che il 2016 sarà l’anno in cui la trasformazione digitale dell’industria sarà, giustamente e finalmente, al centro del dibattito politico ed economico italiano. Abbiamo incontrato alcune aziende del settore ICT e dell’automazione industriale.

Ci hanno fornito un’ampia visione di come cambiano le figure professionali a seguito delle nuove tecnologie di Industry 4.0 con alcune indicazioni legate a questa importante trasformazione industriale. Hanno risposto alle nostre domande: Alberto Muritano, CEO di Posytron (www.posytron.com), Francesco Tieghi, responsabile digital marketing ServiTecno (www.servitecno.it), Guido Porro, managing director Euromed Dassault Systèmes (www.3ds.com/it/), Cristian Randieri, president & CEO di Intellisystem Technologies (www.intellisystem.it), Michele Dalmazzoni, collaboration & business outcome leader Cisco Italia (www.cisco.com/c/it_it), Giuseppe Biffi, Simatic PLC group manager di Siemens Italia (www.siemens.it), Diego Tamburini, manufacturing industry strategist di Autodesk (www.autodesk. it), Ezio Fregnan, Comau HR training manager (www.comau.com), Giuseppe D’Amelio, IM Solutions & Services director – Information & imaging Solutions di Canon Italia (www.canon.it), Paolo Carnovale, head of product marketing industrial di RS Components (it. rs-online.com), Sophie Borgne, marketing director – Industry di Schneider Electric (www.schneider-electric.it).

Automazione Oggi: Quali sono le professioni più ‘a rischio’ in tema Smart Manufacturing sulle quali intervenire sin da ora attraverso azioni di riprofessionalizzazione?

Alberto Muritano: La quarta rivoluzione industriale è stato uno dei temi più discussi dell’ultimo World Economic Forum di Davos, durante il quale era stata presentata una ricerca che ipotizzava la perdita di circa 5 milioni di posti di lavoro nel mondo a causa del progresso tecnologico. Come molti esperti hanno poi commentato, quello della tecnologia che ruba il lavoro è un luogo comune, che già altre volte è stato sfatato nella storia dell’industria moderna. È vero che la progressiva automatizzazione della produzione e l’avvento di sistemi quali la stampa 3D, l’Internet of Things o i dispositivi wearable faranno diminuire la necessità di manodopera a bassa specializzazione: avremo più robot in catena di montaggio o in magazzino, con automi sempre più sofisticati che potranno svolgere qualsiasi compito possa essere standardizzato. È però altrettanto vero che l’innovazione digitale rappresenta la chiave per rendere le imprese più competitive e, nel medio-lungo termine, far crescere il business e l’indotto, creando anche nuovi posti di lavoro. Occorre dunque riflettere sull’obsolescenza delle mansioni più ripetitive e anticipare il cambiamento favorendo la diffusione delle competenze richieste dalle professioni del futuro, sempre più orientate alle tecnologie digitali.

Francesco Tieghi: La manutenzione degli impianti è probabilmente uno dei settori che avvertirà maggiormente l’impatto delle nuove tecnologie: la sempre crescente possibilità di relazionarsi con un centro remoto sta creando possibilità di risparmio ma contemporaneamente sta modificando la figura del manutentore (o comunque le tipologie dei contratti di assistenza). Se fino a qualche anno fa il collegamento da remoto di un’applicazione era il massimo dell’interazione possibile, a oggi le nuove tecnologie indossabili stanno cambiando procedure e modalità d’intervento. Poter vedere in realtime ciò che ha l’operatore davanti a sé, potendo restituire ogni genere di file (o flusso video, o condivisione dello schermo) in trasparenza attraverso gli smartglass, permette al manutentore di guidare da remoto anche una persona non dotata di particolari competenze. La possibilità di inviare su uno smartwatch o smartphone un allarme al tecnico reperibile di turno e verificarne la presa in carico riduce drasticamente i tempi di intervento. Se poi pensiamo all’ambito dell’efficienza energetica, le possibilità di miglioramento sono forse ancora maggiori e già ben evidenziate da chi si è mostrato pioniere in questo settore.

Guido Porro: Smart Manufacturing e Industry 4.0 sono temi ‘generalisti’. Se prendiamo un angolo di discussione più specifico, scopriamo che la rivoluzione dei Big Data e i miglioramenti negli algoritmi di machine learning sono dei driver formidabili di rimpiazzo di occupazione di forza lavoro non tecnologica, includendo task che fino a qualche tempo fa venivano considerati tipicamente ‘umani’ come guidare un’auto o decifrare la scrittura manuale. Un altro esempio specifico è relativo alle tecnologie di 3D Printing che incoraggiano le aziende a rivedere le loro scelte di localizzazione industriale, consentendo loro di riportare parte della produzione vicina agli headquarter europei e americani. Si parla quindi di deindustrializzazione prematura in alcuni paesi in via di sviluppo o aree con vocazione da first o second tier. Device connessi, usi avanzati delle interfacce di connessioni tra oggetti, sensoristica meno costosa e migliore sono ulteriori driver della rivoluzione dei Big Data. Per esempio, sensori impiantabili, come i sistemi per la misurazione della pressione arteriosa, riducono significativamente le necessità di ospedalizzazione dei malati di cuore. Questi device si basano su sofisticati protocolli di comunicazione machine-to-machine che riducono fortemente l’apporto di operatori, pur garantendo ottime funzionalità di identificazione dei segnali di pericolosità. Quello che osserviamo è una sorta di polarizzazione del mercato, sia in termini di imprese sia in termini di skill individuali. La differenza in termini di produttività si fa sempre duale: le aziende guida diventano sempre più produttive e quelle arretrate rimangono sempre più indietro, incapaci di aggiornarsi e competere. Vediamo lo stesso fenomeno a livello individuale.

Cristian Randieri: Sul fronte occupazionale, lo sviluppo dello Smart Manufacturing avrà sicuramente effetti nell’immediato sui livelli occupazionali, per via di una naturale e progressiva sostituzione dell’uomo da parte delle macchine nello svolgimento di diverse mansioni. In quest’ottica, a mio avviso è necessario fare delle considerazioni preliminari per ridimensionare i timori così tanto diffusi tra gli addetti del settore. Storicamente è noto che con le precedenti rivoluzioni industriali sono diventati obsoleti molte professioni e mestieri, parallelamente sono anche nate molte nuove figure professionali e tecniche, capaci di rispondere alle nuove esigenze delle imprese. Va evidenziato inoltre che qualsiasi tentativo che cerchi di frenare i cambiamenti e rallentare il processo di trasformazione dell’industria italiana in chiave 4.0, rischierebbe di porre il nostro Paese in seconda linea rispetto alla altre potenze manifatturiere mondiali ed europee, con effetti sicuramente ancor più gravi sull’occupazione. Dalla ricerca ‘The Future of the Jobs’ presentata al World Economic Forum è emerso che, nei prossimi anni, fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Alcuni di questi, quali la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro, stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi anni. L’effetto stimato prevede la creazione di 2 milioni di nuovi posti di lavoro, con la contemporanea scomparsa di 7, con un saldo nettamente negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. Le stime riguardanti l’Italia riportano un pareggio (200 mila posti creati e altrettanti persi), sicuramente meglio di altri Paesi europei come la Francia e la Germania. Si stima che le maggiori perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione: rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti persi. Secondo la ricerca compenseranno parzialmente queste perdite l’area finanziaria, il management e più in generale tutti i lavoratori impiegati nei settori denominati STEM, acronimo di Science, Technology, Engineering, Mathematics (matematica, informatica, scienze naturali, tecnologia). Cambieranno di conseguenza le competenze e le abilità professionali ricercate: nel 2020 il problem solving manager rimarrà la soft skill più ricercata, ma diventeranno più importanti il pensiero critico e la creatività.

Michele Dalmazzoni: La crescente introduzione di tecnologie digitali nell’ambito manifatturiero ha un impatto in generale sul modo di lavorare nell’impresa. Si tende a pensare subito all’operatore di macchina, che ad esempio potrà avere a disposizione interfacce di tipo innovativo per gestire la macchina, ma in realtà nessuno resta escluso dal cambiamento: il tema si pone anche a livello di altre linee di business, perché la trasformazione digitale porta a un ripensamento anche degli altri processi. Certamente il problema si pone sulle nuove forze lavoro in entrata: le competenze tecnologiche legate all’Industria 4.0 devono diventare al più presto patrimonio formativo delle scuole che formano gli operatori, delle università che formano i futuri ingegneri, responsabili di produzione, manager. Questo richiede un’azione di concerto, una collaborazione tra azienda e mondo educativo, coinvolgendo sia le aziende industriali sia le aziende che propongono le tecnologie per lo smart manufacturing. Non è un caso che la nostra azienda, nell’annunciare un piano di investimento triennale in Italia che mette a disposizione 100 milioni di dollari per accelerare la trasformazione digitale del Paese, abbia messo un focus sugli investimenti per ampliare la formazione proprio in aree come il manufacturing digitale, il networking, la cybersecurity.

Diego Tamburini: Tutte le professioni legate alla fabbrica o che ruotano intorno ad essa, sono state colpite dallo smart manufacturing. Dagli ingegneri che progettano, simulano e implementano piani di produzione (che oggi praticamente progettano qualcosa di simile a un grande e complesso programma per computer che viene elaborato da dispositivi a controllo numerico come ad esempio i centri di lavorazione NC, le stampanti 3D, i robot e veicoli a guida automatica, che lavorano insieme e comunicano il proprio stato tra di loro e con il sistema di esecuzione della produzione) agli operatori che devono fare in modo che questo ‘programma’ venga eseguito senza problemi e secondo il piano. L’attività di troubleshooting e risoluzione di un problema in fabbrica è sempre più simile all’attività di debug del computer: la produzione è stata interrotta perché si è rotto un utensile da taglio o perché c’è un bug nel programma? Un robot forse non sostituirà un operaio ma una persona che sappia programmare, gestire e risolvere i problemi di questo robot probabilmente lo farà. Inoltre, uno degli aspetti più impegnativi dello smart manufacturing è quello di collegare con successo i diversi macchinari e i dispositivi di diversi fornitori, che parlano linguaggi differenti tramite diversi protocolli. Non esistono due fabbriche identiche. Ciò richiede una piena comprensione delle comunicazioni machine-to-machine e di rete, caratteristica che probabilmente non è nemmeno disponibile nel reparto IT ‘tradizionale’.

Ezio Fregnan: Secondo la nostra prospettiva, non esistono professioni specifiche ‘a rischio’. È più corretto parlare di figure ‘in evoluzione’, in costante divenire. I nuovi protagonisti nel settore dell’automazione industriale non si limiteranno infatti a dominare i moderni processi di manufacturing ma dovranno essere in grado di far leva sulle opportunità offerte dalle nuove tecnologie produttive e digitali, che renderanno la vita di fabbrica più semplice, consentendo a uomo e macchine di lavorare insieme, in un’ottica collaborativa.

Giuseppe D’Amelio: Le aziende manifatturiere stanno attuando politiche di automazione per tutti i processi aziendali. Lo scopo è quello di aumentare l’integrazione delle risorse utilizzate nei processi operativi. Ciò sta avvenendo grazie a due forme di innovazione: da un lato le tecnologie IT, come l’IoT, i Big Data e il cloud computing, dall’altro le soluzioni più vicine alla produzione, come la stampa 3D e le tecnologie di produzione additiva. In ambito IT, i CTO, e in generale gli architetti di sistema devono intraprendere un percorso di rinnovamento, mi spiego meglio. I sistemi IT oggi si stanno evolvendo sempre più nella direzione del Digital Business, ovvero della convergenza tra mondo fisico e mondo digitale. Per questo sensori, droni, robot, persone e organizzazioni devono interagire in un ecosistema interconnesso in tempo reale. Ciò è possibile grazie a piattaforme Cloud che facilitano la collaborazione nei processi produttivi e che si scambiano una mole enorme di informazioni strutturate e non strutturate, provenienti anche dall’analisi delle immagini. Quest’ultima spesso svolta proprio attraverso telecamere basate su tecnologia Canon. Le professioni che necessitano di una riprofessionalizzazione in ambito business sono i progettisti e gli esperti di produzione. Ciò è necessario poiché progettare componenti, che dovranno essere industrializzati e prodotti con tecnologia additiva attraverso stampanti 3D, è molto diverso rispetto alla produzione basata sull’assemblaggio effettuato con i sistemi robotici tradizionali di automazione industriale. Anche se la stampa 3D è oggi ancora acerba e non adottata su larga scala, le competenze richieste vanno dalla conoscenza dei diversi materiali e polimeri, all’utilizzo di nuovi sistemi CAD-CAM, che si basano sulla fattibilità delle geometrie piuttosto che sulle sequenze di assemblaggio. È importante infine la capacità di scegliere gli adeguati modelli di supply-chain e logistica, capaci di tenere conto della prossimità dell’utilizzatore finale.

Paolo Carnovale: Nei prossimi 5 anni si prevede una marcata diffusione dei robot industriali anche nelle industrie di medi e bassi volumi. Come già successo nell’automotive (settore con alti volumi di produzione), alcune attività all’interno delle catene di montaggio potrebbero essere impattate dalla diffusione di questa nuova tecnologia. Dall’atro canto, la diffusione dei robot industriali aprirà le porte a nuove figure professionali specialistiche che dovranno occuparsi della programmazione, gestione e manutenzione di questi macchinari. Si potrebbe fare un parallelo con l’introduzione, ormai svariati anni fa, delle macchine a controllo numerico; se da un lato, i CNC hanno sostituito in molti casi le lavorazioni manuali, essi hanno anche fatto emergere la necessità di formare operatori specializzati nella loro programmazione, gestione e manutenzione. Approcciando il tema di smart manufacturing dal punto di vista di ‘Industrial IoT’, la notevole mole di dati, resi disponibili da questa nuova tecnologia, richiederà l’impiego di un numero sempre maggiore di data scientist per elaborare ed interpretare queste informazioni.

Sophie Borgne: Il punto di partenza dello Smart Manufacturing è l’integrazione di tecnologie digitali e operative, che ha un impatto sia a livello di operatori sia a livello di progettazione e realizzazione di sistemi industriali. Dal nostro punto di vista, le professionalità a cui sarà richiesto di rinnovarsi maggiormente sono quelle legate alla progettazione, all’integrazione di sistemi, che devono confrontarsi con tutti i temi legati al digitale, a partire dalla cybersecurity, e a nuove modalità operative abilitate dall’adozione di soluzioni cloud, mobility di cui tenere conto fin dalla fase di design. Parallelamente, la ‘trasparenza’ e comunicazione fra sistemi abilitata dalla digitalizzazione nell’ambiente produttivo porterà alla necessità di guardare all’azione di progettazione e integrazione dei sistemi in modo più ampio, richiedendo anche la capacità di considerare elementi legati al business e alla gestione di progetti. Quindi le figure già in azienda che ricoprono questi ruoli potranno aver bisogno di azioni di riprofessionalizzazione per abbracciare pienamente l’ottica Industria 4.0.

A.O.: Da dove si può partire per la trasformazione di un’impresa in un’Industria 4.0?

Muritano: Credo siano almeno due le strade che ogni azienda dovrebbe esplorare: da un lato la digitalizzazione dei processi per aumentare l’efficienza e la produttività, dall’altro l’utilizzo delle tecnologie mobile per dialogare in modo più efficace con clienti, partner e collaboratori. Sul primo fronte, si tratta di acquisire maggior controllo su tutte le attività produttive e integrarle in tempo reale con la pianificazione, le vendite, l’amministrazione. Non basta svecchiare gli impianti o installare macchinari più sofisticati, bisogna creare una ‘regia’ digitale che, partendo dalla produzione, permetta di monitorare e raccogliere le informazioni rilevanti e usare questi Big Data per supportare le decisioni relative alla gestione e al controllo. L’anima di qualsiasi progetto orientato all’Industria 4.0 è dunque il software, che consente di aggiungere intelligenza ai processi aziendali, migliorare le performance, rendere l’impresa più produttiva e, di conseguenza, più competitiva. Per quanto riguarda le tecnologie mobile, le aziende possono sfruttare a proprio favore l’enorme diffusione di smartphone e tablet progettando e realizzando delle mobile app con cui, ad esempio, interagire in modo innovativo con i clienti, offrire contenuti e servizi alla forza vendita, collaborare più attivamente con fornitori e partner.

Tieghi: Per reggere una struttura serve una base solida. Per questo ritengo che, quando si parla di automazione e digitalizzazione, il punto di partenza obbligato sia uno strumento solido per convogliare, raccogliere e storicizzare i dati. Le tecnologie Scada, rese attuali dalle nuove architetture virtualizzate e ridondate, saranno ancora per molti anni protagoniste della quarta rivoluzione industriale. È giusto parlare di architetture virtualizzate, cloud, dispositivi mobili e app per l’elaborazione dei Big Data, ma non dimentichiamo che per creare questa base dati da analizzare bisogna partire dalla raccolta degli stessi e quindi da un ‘campo’ fatto di sensoristica e dispositivi IoT oriented.

Randieri: Purtroppo ancora oggi il tessuto industriale italiano, anche nelle aree più industrializzate del Paese, si rivela ‘inconsapevole’ di cosa sia Industria 4.0: per molte imprese resta un’enunciazione di principio e di interesse, per altre è un tema da approfondire nel cui intorno costruire realmente una strategia imprenditoriale. Occorre quindi sensibilizzare il tessuto impren ditoriale al fine di far conoscere le caratteristiche fondamentali di Industria 4.0 e i principali abilitatori tecnologici, oltre che per sfruttare la presenza di alcune best practice che evidenzino le opportunità offerte dalla trasformazione digitale sullo sviluppo del business. Tale azione pur essendo fondamentale non è sufficiente se non è accompagnata da una serie di misure, alcune più generali di politica industriale e altre più specifiche, per far sì che il sistema industriale del Paese riesca a portare avanti un modello di sviluppo incentrato sull’innovazione e sulla conoscenza. Industria 4.0 oggi non può prescindere da un investimento forte sui temi della ricerca e innovazione. Per questo è necessario intervenire sin da subito a sostegno della domanda di innovazione delle imprese prorogando le attuali misure di incentivazione e detassazione per stimolare gli investimenti delle imprese. Per alimentare una trasformazione costante del tessuto industriale verso modelli di Industria 4.0, occorre supplire alle difficoltà che le PMI, incontrano nel sostenere investimenti in innovazione, così come nell’individuare i soggetti pubblici o privati cui far riferimento per soddisfare la propria domanda di innovazione tecnologica e digitale. È fondamentale pertanto agire sul fronte del trasferimento della conoscenza, dando vita sul territorio a Digital Innovation Hub, dove le imprese possano scambiarsi tecnologie e business service digitali e cominciare a sviluppare nuove soluzioni e modelli di business, nonché individuare le competenze e le tecnologie da acquisire in tutte le fasi della creazione del valore. Occorre investire anche nel capitale umano puntando sulla competenza e la tecnica di figure professionali e manageriali formate, autonome e responsabili, che siano in grado di rafforzare la competitività delle imprese italiane. Ciò, potrà essere possibile stimolando la formazione digitale delle figure dirigenziali in azienda, nonché inserendo nel contesto aziendale soggetti come i ‘digital enabler’ in grado di diffondere le conoscenze e competenze digitali necessarie.

Dalmazzoni: Trasformare un’impresa in una Industria 4.0 richiede un intervento di tipo tecnologico accompagnato dalla capacità di ripensare l’organizzazione e le competenze, per essere pronti a cogliere tutte le opportunità che nascono dall’integrazione delle tecnologie digitali negli ambienti industriali. Dal punto di vista tecnologico, il passaggio verso l’Industria 4.0 deve essere progettato e realizzato per gradi in funzione delle caratteristiche specifiche dell’impresa, dei suoi obiettivi, del grado di digitalizzazione del mercato cui si rivolge. Non esiste una ricetta univoca, anche se il punto di partenza comune deve essere sempre l’analisi dei propri asset e delle infrastrutture tecnologiche già presenti, al fine di immaginare un percorso evolutivo ma non limitante, che consenta di preservare gli investimenti fatti. Detto questo, non serve a niente disseminare una ‘fabbrica intelligente’ di sensori se non si comprende che la reale posta in gioco è la capacità di integrare, raccogliere, analizzare e sfruttare i dati che essi consentono di ottenere in modo puntuale e in tempo reale dagli asset, dai processi, dai servizi ad essi associati. E si deve avere anche la capacità interpretativa necessaria per guardare alle informazioni così ottenute su più livelli: la fabbrica intelligente è una fabbrica in cui il campo e la gestione del business comunicano in modo bidirezionale, è un ‘luogo’ aperto.

Biffi: Secondo la nostra idea, la digital enterprise si fonda su quattro pilastri: un solido portfolio industrial software and automation, uno standard per la comunicazione industriale basato su Ethernet (Profinet), industrial security per la protezione dagli attacchi informatici e industrial services. È chiaro che il massimo beneficio di Industry 4.0 si può ottenere implementando tutti questi concetti. Tuttavia ogni azienda è diversa e ha priorità differenti, quindi ha perfettamente senso incominciare a implementare uno o più di questi elementi in un punto specifico della catena del valore, dal product design al service. Questo consente all’impresa di focalizzare al meglio le aree di miglioramento interessate dal progetto, di distribuire lo sforzo e capitalizzare i primi benefici, per poi passare al pilastro successivo.

Tamburini: L’IoT in generale, e Industry 4.0 in particolare, ha preso piede grazie alla diminuzione del costo di sensori e dei microcontrollori, così come alla crescente adozione di standard aperti che favoriscono l’interoperabilità e la comunicazione. In particolare, in fabbrica, da diverse decenni le aziende effettuano comunicazioni machine- to-machine. Ma gran parte di queste comunicazioni erano chiuse e proprietarie, nonché ottimizzate per semplificare la comunicazione tra dispositivi e sistemi dello stesso produttore invece che essere interoperabili. La situazione sta migliorando grazie all’adozione di protocolli standard per la comunicazione, che rendono più semplice lo scambio di informazioni tra dispositivi di vendor diversi. Un altro fattore di miglioramento è la possibilità di accedere remotamente alle macchine (dall’esterno della fabbrica e anche del firewall dell’azienda) per controllarle e gestirle. Oltre allo smart manufacturing, un’altra importante trasformazione di business resa possibile dall’IoT, è la possibilità per i produttori di apparecchiature industriali di connettersi sul campo ai propri prodotti. Ciò permette loro di controllare lo stato dei propri prodotti, raccogliere informazioni su come vengono utilizzati e controllarli remotamente. Ciò abilita nuovi modelli di business come ad esempio la manutenzione predittiva, un utilizzo ottimizzato dell’energia ecc.

Fregnan: L’asset fondamentale è il ‘fattore umano’: si deve partire quindi dalle persone, che dovranno guidare i processi e le tecnologie digitali. Le esigenze dei clienti, nei diversi settori industriali, stanno cambiando rapidamente. Nuovi competitor si posizionano infatti nel mercato utilizzando business model dirompenti, fondati su tecnologie innovative. I modelli di produzione tradizionali sono quindi a rischio ed emerge il bisogno di una nuova generazione di manager che sappiano padroneggiare i processi di Factory Automation e guidare i loro team all’interno di sfidanti percorsi di innovazione.

D’Amelio: L’innovazione industriale passa dalla gestione delle informazioni e delle immagini digitalizzate. Le prossime sfide riguardano la digitalizzazione dei diversi processi di comunicazione: da quella interna (digital workplace) a quella legata all’interazione con gli attori dell’ecosistema produttivo, incluse le comunicazioni da e verso i clienti (customer communication management). Un aspetto fondamentale è la capacità di mantenere la coerenza delle informazioni e l’accesso alle stesse attraverso tutti i touchpoint fisici e digitali. Là dove con il temine informazioni si intende sia immagini sia documenti. In ambito IT, il cloud è di sicuro lo strumento essenziale per facilitare la cooperazione tra persone, organizzazioni, sistemi e sensori, all’interno di un ecosistema che dovrà essere aperto e flessibile. Il passaggio dal semplice IaaS (Infrastructure as a Service) al più evoluto PaaS (Platform as a Service) può essere un buon modo per dotarsi di tecnologie abilitanti in termini di cooperazione delle risorse. In ambito business, stampa 3D e mixed reality sono tecnologie da cui partire. Seppur ancora non mature per la produzione in larga scala, oggi vengono diffusamente adottate nelle fasi di progettazione e prototipazione, generando consapevolezza riguardo ai gap che ciascuna azienda deve riuscire a colmare in termini di competenze e tecnologie.

Carnovale: Inizierei la trasformazione dalla connessione, e interconnessione, dei macchinari esistenti con un sistema IoT entry-level; questo approccio permetterebbe, contenendo l’investimento iniziale, di iniziare a migliorare l’efficienza del processo produttivo attuale sulla base dei nuovi dati acquisiti.

Borgne: Le aziende del settore industriale dovranno in ogni caso affrontare una transizione che definirei anche culturale, oltre che di competenze. La trasformazione digitale di un’azienda manifatturiera è un percorso che, dal nostro punto di vista, può essere avviato in modo graduale, un’evoluzione non una rivoluzione, ma per ottenere i migliori frutti è indispensabile che siano comprese e quindi gestite anche le complessità.

Sul numero di settembre di Automazione Oggi pubblicheremo la seconda parte della Tavola Rotonda

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Tavola Rotonda pubblicata su Automazione Oggi N. 391 – Giugno/Luglio 2016 – Anno 32

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